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Storie e leggende
venerdì 19 dicembre 2014.
Calviner
di Giorgio Tognola

A chi ha visitato la mostra “L’occhio dell’ingegnere” saranno, senza ombra di dubbio, rimaste impresse le immagini di donne con l’inseparabile gerla o con la cadola sulle spalle.
Anche l’ingegnere forestale Edoardo Schmid, in una bella pagina proposta nell’antologia “Pagine Grigionitaliane” da Arnoldo Marcelliano Zendralli, pubblicata nel 1956, descrive le donne calanchine con il loro carico sulle spalle:
“Di tanto in tanto incontriamo, curve sotto il gerlo carico, delle donne dell’interno della Valle che sono state a Grono per le loro provviste. Di tempo in tempo fanno la loro sosta appoggiando il carico sui muretti o sui sassi distribuiti lungo la strada.”
Ne parla pure Hans Berhard in una ricerca pubblicata nel 1938 e presentata, tradotta dal professore Diego Simoni, sui Quaderni Grigionitaliani tra il 1939 e il 1941: “ … le ragazze invece si rassegnano alla loro dura sorte di contadine di valle. Già nei giovani anni della loro vita esse devono abituarsi a portare dei pesanti carichi.”
E le donne curve sotto gerle e cadole cariche hanno fatto scrivere nel 1838 a Giovanni Antonio a Marca che “le donne contadine lavorano più degli uomini” e ad Adriano Bertossa che “Il lavoro agricolo è fatto quasi esclusivamente dalle donne e dai fanciulli.”
Anch’io le ricordo quelle donne, in particolare quando in autunno scendevano da Castaneda, con la gerla colma di Calviner, un nome che forse ai molti non dice nulla, ma che per noi bambini d’allora era sinonimo di succose mele pronte per essere consumate avidamente. In pochi bocconi il frutto spariva nelle nostre fameliche fauci e in mano ci rimaneva solo il misero picciolo. Ma non era di pesi sopportati dalle schiene delle donne che vi voglio parlare. Mi voglio invece soffermare un attimo sui prodotti che le nostre terre offrivano, e in particolare quelli di Santa Maria e di Castaneda. Ora che fa più comodo ricorrere agli empori, facilmente raggiungibili con le quattroruote, la memoria dei prodotti autoctoni è rimasta solo nelle testimonianze orali, nei documenti cartacei, in qualche immagine ingiallita, nei nomi di luogo e in qualche pianta che ancora sopravvive sul territorio.
L’alimentazione del passato, basata sulla segale, sulle castagne e sui latticini, monotona, era rotta ogni tanto da qualche proteina animale derivata dalla carne e dai frutti di stagione: ciliegie, mele, pere, noci, da qualche prodotto dell’orto casalingo. Alimenti che per Santa Maria nei documenti che sono stati consultati, compaiono eccezionalmente in alcuni toponimi come il “pratto alle pome”, il “pozzo al noce” oppure “l’andito al tecchio” dove “ le piante di pome […] resta in comunione dei quattro eredi” o ancora “una pianta di pome e la metta delle piante di pero”. Tutti appezzamenti o piante da frutta che troviamo elencati nel quinternetto dell’eredità toccata a Maria Precastella del 17 marzo 1852.
Ma sentiamo quanto ci ha raccontato Enrico Bogana nel mese di gennaio del 2005. Egli elencava ben sette qualità di pere che maturavano a Santa Maria: i per mincion, i per de zucher, i per müsc, i per casctegna, molto dure, i per todesch, squisite e profumate, i per stelin, i per de la Gelpa e tre qualità di mele: i calviner, i pom piatt e i pom de Franza. Ricordava pure che la nonna narrava di donne che si recavano per pochi centesimi o una crancada a Bellinzona e a Mesocco con la gerla carica di frutta.
Ma la terra degli alberi da frutta per eccellenza era Castaneda. Da Nadro in su c’erano i ronchi dove si coltivava la vite e le selve castanili. Lo ricordava pure l’anonimo cronista che descrisse le lotte tra i sostenitori dei cappuccini e il partito di coloro che sostenevano i preti, siamo nel 1703: “La salita si rivela però perigliosa, appostati sulle rocche del Calone, guardie fratiste ne impediscono l’avanzata con insidiosi tiri di moschetto. Obbligati a cambiare rotta, lasciano la mulattiera che sale dritta deviando il percorso tra le vigne di Pisona, e nella proprietà del tenente fratista Tini irrompono nella cantina impossessandosi del vino e di tutto quanto vi trovano. Raggiunta Castaneda tutto vien saccheggiato, non rimane un uscio sano e dopo aver ripulito la cantina, lasciando unicamente le pareti vuote …”.
Per concludere a dimostrazione dell’importanza che gli alberi da frutta avevano a Castaneda, sarebbe d’altra parte sufficiente l’etimologia del nome del villaggio, ecco l’elenco dei toponimi che ne fanno riferimento, raccolti nella prima metà del secolo scorso da Robert von Planta e pubblicati nel 1979 da Andrea Schorta: Camp del Per, Ör de la Poma, Pcian del Nosc, Per Todesch, Persich, Seresa del Papa, Temperiv, Topi, Venespol, Vignascia, Zardin de la Poma e i castagneti: Selva, Selva de Berta, Selva de la Domenga. A questi toponimi se ne aggiungono altri citati nei documenti, ma non più localizzabili sul territorio: Campo al Noce, Fontana al Noce, Giardin de la Sciuresa, Vigna d’Andreota, Vigna dell’Angiolina, Vigna del Domenico, Vigna de la Mainina.
Senza rimpianti per il passato, non sarebbe poi male, se, tra le piccole cose che i bambini troveranno sotto l’albero, ci fosse anche un piatto con noci, nocciole, castagne secche e Calviner.

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“L’uomo si distrugge con la politica senza princìpi, col piacere senza la coscienza, con la ricchezza senza lavoro, con la conoscenza senza carattere, con gli affari senza morale, con la scienza senza umanità, con la fede senza sacrifici.”

Mahatma Gandhi

 
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